La difesa di Livorno del 1849 |
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L’arrivo di Mazzini a Livorno nel febbraio 1849
Così descrisse l’avvenimento il Corriere livornese del giorno seguente: All’alba coll’Ellesponto giungeva fra noi Giuseppe Mazzini, l’Uomo odiato da tutti i Governi d’Italia perché puro e incontaminato, e per non aver mai curvato la fronte a taluni liberali d’occasione e di professione. Le campane davano il segnale del suo arrivo nella nostra città, ed il popolo accalcavasi per le vie che doveva percorrere; cento bandiere sventolavano, e le finestre si ornavano di tappeti, una guardia d’onore composta di bersaglieri e di Guardia Nazionale comandata dagli ufficiali Sgarallino e Guerrazzi stabilivasi all’uscio del cittadino Notary, ove il Mazzini ha preso dimora. A mezzogiorno tutti i Circoli di Livorno con bandiere e cartelloni su cui era scritto "Dio e il Popolo", "Viva Mazzini e La Cecilia, nostri Deputati alla Costituente Italiana", si adunavano in piazza; vi concorreva pure lo Stato Maggiore della Guardia Nazionale, vari drappelli della stessa milizia, e dell’artiglieria cittadina ed una fitta moltitudine di popolo di ogni età e di ogni classe. Il numeroso e brillante corteo moveva per via Borra a casa Notary. Lo Stato Maggiore della Guardia Nazionale e tutti i presidenti dei Circoli si sono recati a complimentare l’illustre italiano, che sceso poscia con loro e preceduto dalla banda civica e dalla fanfara dell’artiglieria si è diretto dal Governatore intrattenendosi a colloquio coll’egregio Pigli e poscia è comparso insieme a lui sulla terrazza. Fragorosi applausi salutarono Mazzini che parlò cercando di rasserenare gli animi, come riferì nel seguito il Corriere livornese: In Livorno arrivai esule nel 1830 e mi strinsi fratello con quegli uomini che voi innalzaste al potere, conobbi pure Carlo Bini, egregio e distinto italiano, e lo ricordo con dolore perché non è più. Livorno ebbe i miei pensieri sempre, e son lieto oggi di rivederla come la più patriottica città d’Italia. I plausi che a me fate, dirigeteli ai principii ch’io professai, giammai all’uomo. Io debbo farvi una comunicazione a nome del Governo. Il Granduca e tutta la famiglia sono fuggiti (e qui voci di gioia e di festa, e il grido di ventimila cittadini, che tanti ne conteneva la piazza, hanno ripetuto – "Buon viaggio un ostacolo di meno per l’indipendenza d’Italia"); e alle voci di "Viva la Repubblica!", "Proclamiamo la Repubblica!", Mazzini ha risposto Io repubblicano per tutta la mia vita, vi esorto ad attendere l’iniziativa da Roma. La Nazione per mezzo dei rappresentanti del popolo eletti col suffragio universale e con libero mandato farà conoscere le sue volontà…. Nello stesso giorno Mazzini scrisse alla madre riferendole della calorosa accoglienza ricevuta a Livorno:
Livorno, 8 febbraio 1849
Mia cara madre,
Giuseppe
Una lettera dell’8 maggio 1849
A Luciano Bartolommei
M.…(cognome illeggibile)
Il diario della giovane Diomira sui fatti accaduti a Livorno nel maggio 1849
Ecco quanto annottò Diomira Cartoni relativamente agli avvenimenti dei giorni dal 5 all’11 maggio 1849: La partecipazione delle donne alla difesa della città nel maggio 1849Anche le donne parteciparono alla difesa di Livorno nel maggio del 1849 in particolare modo quelle dei quartieri popolari dove più forte erano i sentimenti democratici. Tale partecipazione viene ricordata in alcuni sonetti scritti in vernacolo da Vittorio Matteucci. In uno di questi si dice:
Gruppi di donne con bandiera rossa Molte donne livornesi soffrirono nei giorni tragici e confusi dell’aprile-maggio 1849 che precedettero e seguirono l’entrata a Livorno delle truppe austriache, anche della mancanza di notizie sui propri congiunti, perché impegnati senza sosta nelle varie attività di difesa o perché arrestati o costretti ad allontanarsi dalla città senza avere avuto il tempo di darne comunicazione alla famiglia.Tra queste donne vi fu la moglie di Antonio Petracchi, navicellaio e maggiore della Guardia Civica, che abitava col marito nel quartiere "Venezia". A seguito del colpo di stato messo in atto a Firenze dai moderati il 12 aprile 1849, il Petracchi, che comandava il battaglione "Bande Nere, ripiegò con i suoi verso Pistoia. Il 17 aprile seguente, costretto a deporre le armi, venne arrestato dalle truppe regolari e trasferito prigioniero nella capitale toscana. La sua famiglia rimase per qualche tempo all’oscuro di quanto gli era accaduto. Quando ormai Livorno era in mano agli austriaci, la moglie del Petracchi, Teresa, disperata e ansiosa di avere notizie del marito scrisse a Gian Paolo Bartolommei chiedendogli un aiuto. Questi, partecipe dello stato d’animo della donna, interessò direttamente della questione Luigi Fabbri Gonfaloniere di Livorno. Ecco la lettera accorata della signora Teresa Petracchi al Bartolommei: Livorno 28 maggio 1849 Illustrissimo Signore, Non avendo notizie di mio Marito da sette giorni fin adesso, e non avendo da chi rivolgermi se no che da Lei Signoria, onde potere sapere qualche cosa del medesimo per rendere un poco conforto alla mia famiglia, che tanto languisce. Ho (oh) Signore! non si può figurare la situazione in cui ci troviamo non avendoci il Capo di Casa. Sicura che la bontà sua vorrà renderci più consolati avvisandoci dove può essere, ho (o) d’altronde ove mi posso voltare. Mi perdonerà dell’ardire che io mi prendo. La saluto attendendo con ansietà tanto io che la famiglia la risposta. Mi creda Sua umilissima serva Teresa Petracchi Il 5 giugno seguente Luigi Fabbri, che si era allontanato da Livorno prima dell’attacco degli austriaci alla città e che vi era tornato subito dopo l’occupazione assumendo di nuovo l’incarico di Gonfaloniere, cioè di sindaco, rispose al Bartolommei: I replicati uffici dei miei concittadini e degli uomini del Governo mi hanno determinato a riprendere il mio posto, ed eccomi qua a trangugiare l’amaro calice che comunque disgustosissimo è medicina adatta ai nostri mali. Sento quanto mi dici del povero Petracchi, io sono dolente della sua triste posizione e più della sua innocente famiglia, ma che posso fare a di lui pro. Io non sono uomo che mi nasconda negli affari governativi, ma egli si è mal condotto, né saprei da che parte rifarmi per giustificarlo, nulladimeno se la mia voce varrà qualcosa per il lato della compassione mi adopererò a rendere meno dura la sorte che l’attende….
Livorno 5 giugno 1849 Al rientro del Granduca Antonio Petracchi fu processato e condannato a 15 anni. La pena gli fu in seguito commutata in quella dell’esilio fuori d’Italia. Il Petracchi si trasferì allora a Marsiglia dove nel 1856 si tolse la vita amareggiato per quanto era successo a Livorno e per il proprio triste destino. Proclami austriaci a LivornoL’11 maggio del 1849, non appena gli austriaci entrarono a Livorno, il Generale Costantino d’Aspre comandante del Secondo Corpo d’armata austriaco fece affiggere alcuni perentori e minacciosi proclami. Dichiarò che la città era in stato d’assedio e che il comandante militare era il generale conte Gustavo Wimpffen, fece proibire il possesso di armi da fuoco e da taglio, sciolse la Guardia Civica, dichiarò illegali le riunioni dì più persone e ordinò la riapertura delle botteghe. Con uno di tali proclami abolì l’uso della bandiera tricolore:
Notificazione
Livorno 11 maggio 1849 I fatti del maggio 1849 nei ricordi di Giovanni Fattori e Renato FuciniTra i cittadini di Livorno che assistettero ai fatti del 10-11 maggio 1849 c’era Giovanni Fattori, il futuro capofila dei "macchiaioli" toscani. Data la giovane età, egli fu trattenuto dai familiari nella casa di Via del Corso e non poté partecipare alla difesa. Arrampicato sul tetto dello stabile in cui abitava, riuscì ad osservarne le fasi più emozionanti e trasse anche da queste lo spunto per suoi quadri risorgimentali che lo resero celebre nell’età matura. Conservò di quell’avvenimento un ricordo vivissimo, vantandosi per tutta la vita, malgrado la sua ben nota modestia, di essere di Livorno, la città che aveva osato prendere a cannonate gli austriaci. Un altro artista di talento, lo scrittore e poeta Renato Fucini, ricordò con parole di viva commozione i momenti dello scontro, che visse, sia pure indirettamente, in età infantile dal paese di Montecalvoli con il padre David, medico condotto. I due Fucini, assieme ad altri amici, erano saliti in vetta alla collina per udire i colpi dei cannoni. Racconta nelle sue memorie il Fucini: Seduti qua e là, coi gomiti sulle ginocchia e la fronte tra le mani, aspettavamo taciturni e sospirosi la voce funesta del cannone. E quella voce non tardò a farsi sentire. Al rumore della prima cannonata che arrivò sorda lungo la marina, un lampo di speranza brillò sul pallore di quelle facce desolate. Tutti si buttarono in ginocchio a baciare la terra esclamando "Italia, Italia mia!" e rialzatisi, si fusero in gruppo stretto, abbracciandosi piangendo e raccomandandosi a Dio per la salvezza di Livorno. Non so quanto ci trattenemmo lassù; ma certo non partimmo prima che il cannone avesse smesso di far sentire la sua voce. Alle grida di gioia che si erano alzate via via che i colpi si facevano più fitti (dando così speranze di resistenza vittoriosa degli assediati) ai gesti disperati e alle furibonde imprecazioni quando quei colpi si diradavano, tenne dietro un cupo silenzio allorché tutto tacque. Livorno era vinta; un’orda di migliaia di austriaci, armati di cannoni e dei migliori fucili del tempo, avevano sopraffatto quella eroica popolazione... Due curiose lettere di Enrico BartelloniEnrico Bartelloni, certamente uno dei maggiori esponenti livornesi del Risorgimento, fucilato dagli austriaci il 17 maggio 1849, non si accontentava di fare sentire la propria voce a Livorno come guida dei democratici insieme a Francesco Domenico Guerrazzi, ma lui, bottaio, prendeva la penna e con coraggio sosteneva le proprie idee anche fuori della città. La lettera di seguito riportata, al di là degli errori di grammatica perdonabilissimi se rapportati ai nobili sentimenti dell’Autore, testimonia la schiettezza del popolano e quanta passione egli mettesse nel seguire i propri ideali. La lettera, senza data, è diretta a Giuseppe Montanelli che alloggiava presso la "Locanda della Luna" a Firenze. Fu scritta probabilmente tra i primi di ottobre e la fine di novembre del 1848 e si riferisce alla formazione del governo presieduto dal Montanelli del quale faceva parte anche il Guerrazzi. Stimatissimo Signor Montanelli, La pregho (prego) di appoggiare le Ragioni del popolo di Livorno e sono queste: chi ha principiato bene deve terminare. Il nostro padre è Guerrazzi e non altri. La prego dunque, pure Lei ci si presti. La saluto di vero quore (cuore). Enrico Bartelloni Bartelloni per occuparsi delle questioni politiche trascurava persino il proprio lavoro e i propri interessi personali. Ne è cruda testimonianza questa lettera, senza data, che egli scrisse ad un amico chiamato nell’indirizzo Giuseppe Federigi per chiedere un aiuto economico: Caro amico, sono a pregarla di un favore. Di un prestito di lire venti, ma se Tu non puoi guarda almeno di mandarmi uno zecchino perché sono imbarazzato per la pigione di casa. Alla restituzione conta annatale (a Natale). Ti saluto L’amico Bartelloni
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